Paolo scrisse la Lettera ai Filippesi mentre si trovava a Roma; è infatti una delle lettere scritte dalla prigionìa.
L’origine della chiesa di Filippi è descritta dettagliatamente in Atti degli Apostoli 16 (12-40). La prima a nascere in Europa, essa venne fondata verso il 51 d.C., durante il secondo viaggio missionario di Paolo. L’apostolo decise di andare a Filippi in seguito ad una visione, nella quale vide un macedone che gli diceva: «Passa in Macedonia e aiutaci». Paolo ed i suoi collaboratori cambiarono allora i propri programmi e decisero di recarsi in Macedonia. La prima persona a convertirsi fu Lidia, una donna ricca e distinta. Sebbene fosse di origine pagana, era stata attratta dalla fede ebraica ed era timorata di Dio. Quando sentì predicare Paolo, credette in Gesù Cristo e fu battezzata con la sua famiglia. In seguito, Paolo e Sila furono arrestati con una falsa accusa e fu in quell'occasione che il soldato di guardia alla prigione dove essi erano detenuti si convertì con la sua famiglia. Così venne a formarsi il primo nucleo della comunità cristiana.

Ora qualche cenno sulla città di Filippi. La storia e il nome della città sono collegati con Filippo II di Macedonia, padre di Alessandro Magno, che la fece ingrandire e fortificare intorno all’anno 360 a.C. Situata in una regione fertile e ricca di sorgenti, nella parte settentrionale di quella che oggi conosciamo come Grecia, era nota per le sue miniere d’oro. Distrutta dalle guerre, fu ricostruita dall’imperatore Augusto, che ne fece una colonia romana, con tutti i privilegi che un municipio di provincia potesse ottenere. Era abitata prevalentemente da romani, ma c’erano anche macedoni, greci e alcuni ebrei. I suoi abitanti erano fieri di essere cittadini romani.

La scelta di Filippi come luogo di lancio del Vangelo in Europa era conforme alla strategia missionaria di Paolo, il quale, infatti, sceglieva località importanti come trampolini di lancio da cui la Buona Notizia si sarebbe potuta propagare.

Quale motivo spinse Paolo a scrivere questa lettera ai cristiani di Filippi?

L’apostolo desiderava confermare di aver ricevuto il dono in denaro che essi gli avevano inviato per mezzo di uno dei membri della chiesa, Epafròdito. Paolo fu profondamente toccato dalla loro generosità, anche perché il messagggero dei Filippesi aveva rischiato di perdere la vita durante il viaggio (2:25-30; 4:18); quando Epafrodito si riprese, Paolo lo rimandò a Filippi, insieme a Timoteo, con questa bellissima lettera. Le particolari attenzioni che continuamente i cristiani di Filippi mostravano all’apostolo furono per lui sempre motivo di consolazione. Non ci stupiamo quindi che il suo scritto sia carico di affetto e che, in altre occasioni, l’apostolo abbia lodato questi credenti con parole di alta stima (2 Corinzi 8:1-6).

In questo scritto, una caratteristica emerge sulle altre: la gioia che lo permea in tutte le sue parti. La sua lettura è davvero incoraggiante: “gioia” e “rallegrarsi” sono le parole più frequenti.

Vediamo, ad esempio, che l’apostolo gioisce nella preghiera (1:4) e dei risultati delle sue fatiche (4:1), gioisce nel sapere che il Vangelo è predicato (1:18), gioisce nella sofferenza anche se questa dovesse condurre alla morte (2:17). Egli esorta i suoi lettori a rallegrarsi nel Signore (3:1, 4:4). Vuole che essi abbiano la gioia della fede (1:25), la gioia della comunione fraterna (2:28) e che, come lui, si rallegrino anche nella prova e nella sofferenza (1:29).

È impressionante notare come l’autore sia capace di gioire, e incoraggiare alla gioia, in un momento tanto difficile della sua vita. Paolo era prigioniero di Nerone, le sue parole non provenivano dalla pace e dalla tranquillità di una vacanza al mare. Al contrario, chi scriveva stava aspettando una sentenza che avrebbe potuto significare la sua morte.  Paolo sapeva gioire perché era consapevole che la sua unione con Cristo non dipendeva dalle circostanze più o meno favorevoli.

Ecco un riassunto del contenuto della lettera:

Dopo i saluti, Paolo ringrazia Dio per i Filippesi, ricorda la sua costante preghiera per loro, dà alcune notizie sulla sua prigionia, poi racconta le sue esperienze di prigioniero. Esorta i Filippesi a vivere in modo degno del Vangelo di Cristo, seguendo il suo esempio di umiltà. Nel capitolo 2 troviamo la sublime dichiarazione dell’umiltà del Signore Gesù, seguita dalla glorificazione. Questo è il punto in cui la lettera raggiunge il suo apice. Dopo un intermezzo in cui parla di Epafròdito e Timoteo, Paolo racconta il suo passato di persecutore, la sua esperienza nella vita cristiana e invita i Filippesi a stare in guardia verso quelli che insidiano il loro cammino.

L'apostolo conclude con un appello all’unità della Chiesa e dei consigli su come sentire, pensare e agire. Ringrazia i Filippesi per la rinnovata generosità e chiude con i saluti e una benedizione.

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Il libro di Osea si colloca fra il 786 e il 724 a.C. circa, durante i regni di Uzzia, Iotam, Acaz ed Ezechia nel regno di Giuda (o regno del Sud) e Geroboamo II nel regno di Israele (o regno del Nord).
Con 8 citazioni, Osea è il terzo profeta più citato nel Nuovo Testamento.
Il suo libro, suddiviso in 14 capitoli, presenta una struttura circolare, in quanto si susseguono 6 annunci del giudizio di Dio, a ciascuno dei quali ne segue uno di grazia.
Lo scopo della profezia di Osea era quello di chiamare Israele al pentimento, profetizzare sulla causa della deportazione a Babilonia, dovuta all'infedeltà del popolo, e predire la restaurazione.
Come Amos, Osea incentra la sua profezia sul regno di Samaria (Israele), ma facendo riferimento ogni tanto anche a quello di Giuda, che valuta in genere come simile al primo. Ciò è significativo perché in realtà, la condizione di quest'ultimo era sensibilmente migliore e la degenerazione non era ancora così avanzata. Evidentemente, il profeta vedeva già con anticipo che nel regno del Sud si era imboccata la stessa strada nel regno del Nord.

In questo libro profetico, Dio viene paragonato soprattutto ad un marito, ma anche ad un fidanzato e ad un padre. Egli ordina al profeta di prendere in moglie una prostituta e simboleggiare così la relazione fra Lui stesso ed il popolo di Israele, che adorava altri idoli ed era infedele al suo Dio:

«Va', prenditi in moglie una prostituta e genera figli di prostituzione, perché il paese si prostituisce abbandonando il Signore» (Osea 1:2).

La "moglie Israele" aveva tradito sistematicamente Dio e si era ampiamente meritata il ripudio, ma Dio ne avrebbe avuto poi compassione e l'avrebbe corteggiata di nuovo come da fidanzato, legandola a sé «per l'eternità» (3:19).
Osea annuncia ripetutamente il giudizio di Dio su Israele, ma poi PER GRAZIA la condanna viene trasformata in salvezza. Osea avverte il regno del Nord della futura deportazione in Assiria e vive fino a vederla realizzarsi. Il profeta avvisa il popolo molto chiaramente che la sua condizione di peccato davanti a Dio era più grave che mai e doveva aspettarsi il castigo di Dio. Israele aveva conosciuto il Signore mediante la liberazione dall'Egitto e Dio stesso aveva detto: «Voi avete visto quello che ho fatto agli Egiziani e come vi ho portato sopra ali d'aquila e vi ho condotti a me» (Esodo 19:4). Eppure erano stati così ciechi da tornare ad adorare una statua raffigurante un vitello d'oro.

«Desidero bontà, non sacrifici, e la conoscenza di Dio più degli olocausti» (Osea 6:6)
«Tornate al Signore! Ditegli: "Perdona tutta l'iniquità e accetta questo bene; noi ti offriremo, invece di tori, l'offerta di lode delle nostre labbra."» (Osea14:2)

Qualcosa di simile avrebbero detto anche altri profeti e lo aveva già detto Samuele a Saul: «Ubbidire è meglio del sacrificio, dare ascolto vale più che il grasso dei montoni» (1 Samuele 15:22). Dio aveva richiesto ad Abramo di avere fede, non di moltiplicare i sacrifici. Nella legge di Mosè, i sacrifici erano forme che dovevano esprimere una sostanza, ma per Dio la sostanza è stata sempre più importante della forma: a Lui non interessa un'adorazione puramente formale, ma che il nostro cuore gli appartenga con fedeltà.

Dal libro di Osea impariamo che Dio continua ad amare incondizionatamente il suo popolo anche quando si svia, e desidera riportarlo a sé, anche se non se lo merita.
E anche noi, come umanità, ci siamo sviati e non meritiamo l'amore di Dio, ma, per la sua misericordia, Lui vuole ugualmente riportarci a sé, offrendoci il suo perdono e la vita eterna al posto di un'eternità di lontananza da Lui.

 

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Questa sicuramente rappresenta una delle parabole più conosciute ed amate; la troviamo al capitolo 15 di Luca:

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