Il nome del profeta Michea significa «Chi è come Dio?», una domanda retorica, quasi provocatoria, che ci fa riflettere sull’unicità di Dio. Nessuno può essere come Dio, o avere la pretesa di essergli simile.

Michea era originario di Moroset, una città al confine con la Filistia, nelle vicinanze di Gat, a circa 48 km da Gerusalemme. Visse nell’VIII a.C., quasi duecento anni dopo la scissione fra le dieci tribù del nord, guidate da Geroboamo, e le due del sud, rimaste fedeli alla casa del re Davide. Era contemporaneo dei profeti Isaia ed Osea.
Mentre il regno di Giuda, a vicende alterne, continuava a servire il Signore nel tempio di Gerusalemme, il regno del Nord, con capitale Samaria, era invece diventato un centro di sacerdoti idolatri e di pratiche pagane.Michea svolse la sua attività di profeta durante i regni di Iotam, Acaz ed Ezechia. Acaz fu un re particolarmente malvagio, dunque il nostro profeta fu testimone di un periodo di decadenza nel regno di Giuda, ma anche di un ritorno a Dio sotto il governo del re Ezechia, il quale sicuramente ricevette incoraggiamento e aiuto da Michea ed il contemporaneo Isaia, con il quale collaborò strettamente. Nelle sue prediche, Michea si rivolge tanto al regno d’Israele, quanto al regno di Giuda, nel periodo in cui Israele era sotto la minaccia di un'invasione assira.

Il libro di Michea, scritto in uno stile semplice, elegante e diretto, è composto da 3 cicli di annunci di giudizio seguiti dall'annuncio della grazia che Dio avrebbe fatto al popolo. Ogni sezione comincia con l'esortazione «Ascoltate!» e termina con una nota di speranza. Come Amos, anche Michea mette in rilievo i "peccati sociali" (cioè contro il prossimo) e il fatto che il popolo non sopportasse i veri profeti, mentre gradiva quelli falsi. Come in Osea, ritroviamo una radicalità della disapprovazione di Dio verso il comportamento di Israele, unita ad una paradossale grazia che va oltre qualsiasi peccato commesso.

Nel testo si rintracciano tre temi principali: i peccati del popolo, la punizione che ne sarebbe derivata e, infine, il suo recupero per grazia di Dio. Nella sua predicazione, il profeta alterna alla desolazione visioni di gloria futura, all’ira divina, sentimenti di misericordia.
Il primo capitolo comincia con la solenne accusa contro i «peccati della casa d’Israele» (versetto 5).
Samaria era la capitale del regno del Nord. I suoi capi erano i diretti responsabili della corruzione dominante nella nazione e avevano adottato il culto del vitello d’oro e quello di Baal. Oltre ad essere idolatre, le classi governanti erano anche spietate nei confronti dei più poveri, prendevano i loro campi, i loro abiti e cacciavano dalle loro case le donne con i loro bambini. Molti a quell'epoca erano i profeti che, in cambio di cibo e offerte, erano pronti a predizioni non veritiere e faziose. Dio aveva mandato Elia, Eliseo ed Amos perché gli Israeliti abbandonassero i loro idoli, ma essi non avevano voluto ascoltare questi avvertimenti. Pertanto, a quel punto, il giudizio di Dio era alle porte.
Nel 734 a.C., gli Assiri condussero in esilio gli abitanti del regno del Nord e nel 721, Samaria divenne un “mucchio di pietre”, come preannunciato al versetto 6.

Le parole di Michea 4:1-3 corrispondono a Isaia 2:2-4, ma non si sa chi dei due sia stato il primo a scriverle.Si tratta della visione di un mondo senza guerre , felice, timorato di Dio. Improvvisamente, nel mezzo di questa rappresentazione sublime del futuro, il profeta ritorna a parlare di dolori e del giudizio che si abbatterà su Gerusalemme (3:12), annunciando che il popolo sarebbe stato condotto in esilio a Babilonia (4:10). Si tratta di una sorprendente profezia risalente a cento anni prima che l’impero babilonese prendesse il posto dell’Assiria, la nazione emergente di quel periodo. Gerusalemme, infatti, riuscì ad evitare la conquista assira, ma, assediata dai Babilonesi, cadde e i suoi abitanti furono deportati.

I messaggi di Michea non riguardano solo i suoi tempi, ci sono delle fughe in avanti, delle proiezioni sul futuro, come abbiamo visto al capitolo 4.
E nel momento più inaspettato, Michea rivela ciò che il Signore gli ha affidato riguardo il Messia:

«Ma da te, o Betlemme [...] uscirà colui che sarà dominatore in Israele, le cui origini risalgono ai tempi antichi,
ai giorni eterni [...] egli sarà grande fino all'estremità della terra. Sarà lui che porterà la pace»
(5:1-4).


Il dominatore è Gesù che regnerà in eterno in Israele, colui che è esistito sempre, sin dai tempi dell’eternità, ed è diventato uomo per portare un messaggio di perdono e di salvezza.
Noi tutti siamo peccatori e indegni; non punire i nostri misfatti sarebbe ingiusto da parte di Dio. Però, il suo amore non si ferma davanti a questa realtà e perciò ha mandato suo Figlio a prendere su di sé la sua ira, rendendo così possibile il nostro perdono. La giusta ira di Dio non è stata ritirata, ma è stata riversata su Cristo, e se noi crediamo in Lui, Dio non ci imputa più i nostri peccati. A noi il perdono non costa niente: questa è la grazia di Dio. Gesù ha pagato al nostro posto, l’ira di Dio è stata placata, ma se rifiutate la grazia, il giudizio di Dio rimane sulla vostra vita perché , ricordate, ogni uomo, ogni donna , è colpevole davanti a Dio.
Non lo meritiamo, è vero, ma il Signore ci offre la sua grazia per la sua misericordia, perché ci ama.

Il libro termina con una espressione di gioia per la grazia di Dio verso il suo popolo. Ecco i versetti 18 e 19 del capitolo 7:

«Quale Dio è come te, che perdoni l'iniquità e passi sopra alla colpa del resto della tua eredità? Egli non serba la sua ira per sempre, perché si compiace di usare misericordia.
Egli tornerà ad avere pietà di noi, metterà sotto i suoi piedi le nostre colpe e getterà in fondo al mare tutti i nostri peccati.»

In Cristo ciò è possibile: Dio torna ad avere pietà di noi esercitando un perdono definitivo. Se siamo andati alla sua presenza per chiedere perdono e ricevere la salvezza offerta attraverso Cristo Gesù, i nostri peccati non saranno più ricordati, per dirla con le parole di Michea, saranno gettati in fondo al mare!

 

33 michea

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32 giona 

 

Giona viene introdotto nella Bibbia come collaboratore di Geroboamo II (2 Re 14:23-29), che fu a lungo re d'Israele a Samaria (Regno del Nord).
Dio chiese a Giona di predicare ai pagani fuori dai confini di Israele, ed egli non fu il solo profeta a ricevere questo mandato, anche Naum e Abdia rivolsero le loro profezie agli stranieri. E prima di Giona altri due profeti avevano svolto parte del loro lavoro tra i popoli pagani: Elia a Sidone ed Eliseo in Siria.

Vediamo subito il quadro storico in cui si colloca la vicenda di Giona.
Sono passati molti anni dalla predicazione del profeta Elia e del suo successore Eliseo. Il regno del Nord si è allontanato sempre più da Dio dandosi all’idolatria e si può già vedere in anticipo il dramma dell’esilio.
Ma nell’ottavo secolo a.C. Dio, nella sua misericordia, concede un momento di tregua a Israele. Durante il regno di Geroboamo II, Giona profetizza un periodo di stabilità politica per le dieci tribù che costituiscono il regno del Nord (2Re 14:25). In questo stesso periodo, Ninive, capitale dell’Assiria, è al massimo della sua potenza e i suoi re nutrono mire espansionistiche sui territori di Israele e di Giuda. La prospettiva di essere conquistati dagli Assiri terrorizzava i popoli di quella regione. Leggiamo la descrizione di uno studioso che, con immagini forti, ci dà un quadro della grandezza e della crudeltà di questo popolo e dei suoi sovrani:
«Dal Caucaso e dal Mar Caspio fino al golfo Persico, e dall’altra parte del fiume Tigri fino all’Asia Minore e all’Egitto, questo popolo governava con orrenda tirannia e violenza. I re assiri erano un vero e proprio tormento per il resto del mondo: dilaniavano i corpi morti dei soldati; costruivano piramidi di teschi umani, offrivano in sacrificio i figli e le figlie dei loro nemici, bruciavano città, sterminavano intere popolazioni, riempiendo i deserti di sangue e i paesi di corpi straziati; impalavano corpi umani a migliaia, gettavano le ossa nei fiumi, tagliavano le mani dei re e le inchiodavano ai muri lasciando i loro corpi a marcire alla porte della città, in preda agli orsi e ai cani; falciavano i loro nemici come fossero grano e li abbattevano nelle foreste come bestie; ricoprivano intere colonne con la pelle strappata dai corpi dei monarchi rivali…e facevano tutto ciò senza alcun rimorso» (W. Graham Scroggie).
Ninive era la capitale di questo impero.
Proprio al culmine del potere assiro, Dio comandò al profeta Giona di andare a Ninive ed avvertire gli abitanti dell’imminente giudizio. Essere un profeta non era una cosa facile: occorreva una fede ben radicata in Dio e molto coraggio per poter predicare in situazioni difficili ad un uditorio ostile.

Giona era nativo di Gat-Efer, località a cinque chilometri da Nazaret.
Il suo nome significa “colomba”, e come tale egli era pronto ad annunciare la pace e la misericordia divina al suo popolo. Il profeta Giona ricevette un preciso ordine dal Signore: andare a Ninive, la capitale dell’Assiria e predicare contro la sua malvagità, offrendo ai Niniviti la possibilità di riconciliarsi con Dio. Ma Giona non voleva andare a Ninive, né gli sembrava giusto che a quei barbari Dio potesse far grazia nel caso in cui si fossero pentiti: così decise di fuggire, spingendosi verso i più lontani confini del mondo allora conosciuto.
Ma non si può sfuggire a Dio. Il Signore scatenò una tempesta impetuosa e, mentre invocavano l’aiuto dei loro dèi, i marinai tirarono a sorte per capire a causa di chi capitava quella disgrazia. La sorte cadde su Giona ed egli spiegò che era in fuga per non eseguire un ordine del suo Dio.
Egli stesso suggerì all'equipaggio della nave di buttarlo in mare, era convinto che in tal modo la tempesta si sarebbe placata. Dopo qualche esitazione, i marinai fecero come Giona aveva loro suggerito. La tempesta si placò e il profeta fu inghiottito da un grosso pesce, nel cui ventre egli rimase per tre giorni e tre notti (in merito ti invitiamo a leggere l'approfonditmento "Il pesce di Giona e la tomba di Cristo"). Pregò con fervore e Dio lo esaudì ordinando al pesce di vomitarlo su una spiaggia.
Dopo quegli avvenimenti, il Signore parlò ancora a Giona e questa volta il profeta ubbidì.
Ninive era così estesa che ci vollero tre giorni per percorrerla, e in quei tre giorni Giona predicò un forte messaggio che invitava gli abitanti ad avvicinarsi a Dio e a convertirsi. Colpiti dal messaggio, i Niniviti si pentirono dei loro peccati. Allora il Signore, nella sua misericordia, ebbe pietà di loro e decise di non punirli. Giona però ne fu irritato: non riteneva giusto che fosse concessa una opportunità di redenzione ad un popolo del genere, che comunque avrebbe continuato ad essere una minaccia per il popolo di Israele. La cosa più logica sarebbe stata che Dio li sterminasse e salvaguardasse il suo popolo. Eppure Dio ebbe compassione di quella popolazione, dimostrando a Giona che il suo amore è riservato a tutti gli uomini ed Egli ascolta chiunque si rivolga a lui con pentimento.

Una generazione di Niniviti conobbe e ricevette la bontà di Dio, benché meritasse di essere condannata. Ma le generazioni successive si dimenticarono di quella meravigliosa opportunità e tornarono a vivere nella crudeltà. Negli anni che seguirono, la potenza militare e politica dell’Assiria crebbe ulteriormente. La città di Ninive, dopo aver conosciuto la bontà divina, si preparava a sperimentare il terribile giudizio del Dio vivente, come si vedrà più avanti, nell'introduzione al libro del profeta Naum.

 

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 Abdia è il quarto dei profeti detti minori, dopo Osea, Gioele e Amos. Il suo scritto è l’unico composto di un solo capitolo, esattamente 21 versetti.
Non sappiamo nulla sull’autore, conosciamo soltanto il suo nome che vuol dire “servo di Yahweh”.

Abdia ha qualcosa in comune con Giona e Naum, e cioè che tutte e tre questi profeti non si rivolgono a Israele o a Giuda, ma alle nazioni pagane intorno.
Ciò è un'ulteriore conferma del fatto che il Dio di Israele non è mai stato un dio “tribale”, il Dio di un solo popolo, essendo fin dall'inizio il Creatore, e perciò Signore, sia dell'universo che di tutti gli uomini; Mosè stesso, a scanso di equivoci precisò che «Il Signore ama i Gentili» (Deuteronomio 33:3), intendendo con la parola "Gentili" tutti coloro che non erano appartenenti alla casa d'Israele.
La visione profetica di Abdia è riferita a Edom (che, ricordiamo, era il soprannome di Esaù, il quale vendette il diritto di primogenitura al suo gemello Giacobbe per un piatto di lenticchie, racconto che troviamo in Genesi 25:29-34).
Abdia denuncia l'orgoglio e l'inimicizia di Edom nei confronti dei discendenti di Giacobbe (ovvero Israele), affermando che ciò sarebbe stato la causa della sua caduta. Nel versetto 10 leggiamo infatti:

«A causa della violenza fatta a tuo fratello Giacobbe, tu sarai coperto di vergogna e sarai sterminato per sempre.» 

«…non rimarrà più nulla della casa di Esaù», perché il SIGNORE ha parlato.»versetto 18

Il paese fu, infatti, prima devastato dai Babilonesi ed in seguito conquistato dai Nabatei. All’epoca dei Maccabei, nel 126 a.C., Giovanni Ircano incorporò gli Edomiti nella nazione ebraica. La famiglia degli Erodi era edomita, con la conquista romana della Palestina essi salirono al trono per regnare su Giuda. Perciò quando leggiamo del re Erode alla nascita di Gesù, dobbiamo pensare ad un re di origine edomita, più che israelita vera e propria.
Dopo la distruzione di Gerusalemme nel 70 d.C., la storia non ci parla più di questo popolo, confermando la veridicità del breve scritto di Abdia, nel quale possiamo cogliere anche degli insegnamenti universali.
A Dio non piace né l'odio né l'orgoglio (si può leggerlo nei versetti 3 e 4). L’orgoglio del cuore inganna e ci illude di poter arrivare a chissà quale posizione, ma la realtà è diversa, perché esiste un Dio che riporta con i piedi per terra chiunque si innalzi oltre il suo limite. E la Bibbia è piena di riferimenti agli orgogliosi, quasi ad intendere che questo sia uno dei peccati più comuni... e non è forse così? (in merito a questo argomento ti invitiamo a leggere l'approfondimento "Orgoglio o umiltà? Figli o schiavi?")
Se da un lato Dio denuncia e punisce in maniera chiara l’orgoglio, dall’altro Egli si prende cura di coloro che gli appartengono, che hanno un cuore umile e che subiscono. Dio vede ogni cosa e la giustizia è Sua. Non solo: arriverà il momento in cui Cristo regnerà, e quello sarà il tempo della vera giustizia.

Chiunque crede in Dio e in suo figlio Gesù attende la piena realizzazione di questa promessa confermata in Apocalisse 11:15:

«Poi il settimo angelo sonò la tromba e nel cielo si alzarono voci potenti, che dicevano:
«Il regno del mondo è passato al nostro Signore e al suo Cristo ed egli regnerà nei secoli dei secoli.»

Attraverso la profezia su Edom, Abdia ci insegna il principio biblico che «Dio resiste ai superbi, ma dà grazia agli umili» (1Pietro 5:5).
Quando avremo la consapevolezza di essere insignificanti davanti alla potenza e alla gloria di Dio, ci affideremo solo a Lui e Dio ci verrà incontro donandoci la vita eterna.

 

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Il libro del profeta Amos è il terzo della serie dei profeti minori, dopo Osea e Gioele.
Durante il regno di Uzzia a Gerusalemme e di Geroboamo II a Samaria, intorno al 760 a.C., Geroboamo II aveva esteso i suoi confini (2 Re 14:23-29), un ampio controllo delle vie commerciali aveva determinato uno sviluppo economico, intanto l’aristocrazia badava solamente a vivere nel lusso. In tutto il paese, l’idolatria e la decadenza morale crescevano di pari passo.
La religione nazionale era il culto del vitello d’oro (2Re 12:25-33), ma in seguito fu introdotto anche il culto di Baal.
Dio aveva inviato Elia, Eliseo e Giona per condurre il popolo al ravvedimento, ma senza risultati. Israele si era radicato nella sua idolatria e malvagità: bestemmia, furto, ingiustizia, oppressione, adulterio ed assassinio caratterizzavano la vita quotidiana.Il paese si avviava inevitabilmente verso la rovina, nondimeno Dio mandò Amos ed Osea nel tentativo finale di fermare la nazione nella sua folle corsa verso la distruzione. Mentre la nazione di Israele ormai mostrava chiari segni di decadenza, all’orizzonte sorgeva una nuova potenza: l’Assiria. Questa nazione emergente, in seguito alla profezia di Amos ( intrisa della parola "Esilio"), sarebbe stata lo strumento nelle mani di Dio per giudicare Israele. Il re d’Assiria imprigionò Osea, ultimo re d’Israele, e condusse in esilio la popolazione che avrebbe vissuto 70 anni di desolazione in un paese straniero (2 Re 17:22-23).

Dio chiamò Amos ad essere il suo portavoce nel regno di Israele, anche se egli non era un sacerdote, né un profeta "di professione" (7:14), ma un mandriano e un coltivatore. Dio dunque può affidare la sua parola a chiunque, e infatti nella Bibbia vediamo che ha scelto per il suo servizio uomini e donne appartenenti a qualsiasi ceto sociale: nobili e pescatori, sacerdoti ed esattori delle tasse, un medico, un rivoluzionario, un’orfana.
Amos era di Tecoa, una città situata a circa 16 km a sud di Gerusalemme e a circa 8 km da Betlemme. Il nome Amos vuol dire “fardello” o “portatore di un peso” e, in effetti, i suoi discorsi erano gravosi, scomodi: rimproverare al popolo il peccato, proclamare i castighi di Dio, sollecitare il cambiamento e il ravvedimento.

La formula tipica ricorrente «Per tre misfatti, anzi per quattro» è usata dal profeta per annunciare il giudizio su otto nazioni, come ad indicare che le mancanze dei popoli erano sempre maggiori di quelle di cui essi avevano coscienza.
Amos delinea le condizioni sociali e religiose del popolo di Dio: oppressione, violenza e rapina descrivono il degrado di una società senza giustizia dove viene praticata una religione vuota che non ha niente a che fare con Dio. Per tutto ciò, il giudizio si sarebbe abbattuto su di essi e un nemico avrebbe assalito improvvisamente il paese, deportando i prigionieri legati con degli uncini passati attraverso le labbra (pare che gli Assiri usassero questo terribile metodo) .
Al capitolo 5, sembra che il popolo sia disposto a rivolgersi verso Dio indirizzando a lui i sacrifici invece che agli idoli: l’esortazione di Amos e di Dio però non riguarda le formalità religiose, ma è un richiamo a una vera riforma morale e spirituale.
Al capitolo 7 troviamo tre visioni di distruzione.
La prima è rappresentata dalle locuste, delle cavallette che divorano le piante, mentre la seconda è di un fuoco che divampa per le campagne. Amos intercede e il giudizio di Dio viene sospeso.
Nella terza visione il profeta vede un filo a piombo, uno strumento usato dai muratori per verificare la verticalità di una parete. Israele è come un muro inclinato che crollerà inevitabilmente. Due volte Dio ascolta l’intercessione di Amos, ma il mancato ravvedimento del popolo avrebbe poi dato corso alla giustizia divina.
Il capitolo 7 contiene anche una nota storica che vede Amos accusato da un sacerdote di congiura contro il regno, ma il coraggio del profeta prevale sulle accuse.
Il capitolo 8 descrive un’altra visione del profeta, un paniere di frutti maturi: il paese è maturo per la rovina, determinata dall’avidità, dal commercio disonesto e dalla spietata crudeltà esercitata verso i poveri.
L'ultima visione la troviamo al capitolo 9: un altare da demolire (che lascia intendere chiaramente che il tempo del giudizio sarebbe arrivato inesorabilmente), e un segno di ricostruzione futura ( in merito ti invitiamo a leggere l'approfondimento "Amos e la chiesa del Nuovo Testamento").

Alla fine del libro troviamo delle confortanti promesse. Le ultime parole di Amos parlano di una ricostruzione d’Israele, di un ritorno alla terra dopo l’esilio e di una gloria eterna (9:11-15). Il ritorno si concretizzò dopo 70 anni di esilio, la gloria eterna si riferisce ai tempi futuri e al ritorno di Cristo in Gerusalemme.

Quale insegnamento ci arriva dal profeta Amos?
Dio è il Giudice del mondo. I delitti e la malvagità, dovunque avvengano, sono detestati da Lui e sottoposti al suo giudizio (1:3-2:3).
Appartenere al suo popolo è un privilegio, ma ciò non esclude dal giudizio (3:2). Anzi, il messaggio che traspare dagli scritti di Amos, ma che poi viene presentato a più riprese anche nel Nuovo Testamento, è che chi ha conosciuto Dio, chi ha avuto relazione con Lui, ha una responsabilità maggiore perché sa esattamente che cosa Dio voglia, ovvero una relazione autentica con Lui che porti frutti adeguati. Ecco perché Amos, come tutti i profeti, era chiamato a riprendere il popolo che si allontanava da Dio.

Il messaggio che Dio ha comunicato al popolo di Israele per mezzo di Amos è ancora oggi attualissimo: quando in una società che si dichiara cristiana i delitti si moltiplicano, l’ingiustizia sociale è all’ordine del giorno, la perversione impera e non c'è più un chiaro limite che separi ciò che è giusto da ciò che è sbagliato, vuol dire che non c’è più nessun legame tra quello che si professa e ciò che si pratica. È necessaria una presa di coscienza, e un cuore pronto ad essere modellato da Dio per portare un reale cambiamento prima nel singolo, e poi di riflesso nella società.
Ma non solo: il Signore continua a fare sentire la sua voce, dichiarando: «Cercatemi e vivrete» (5:4). Questo appello riguarda tutti noi oggi. Dio mette a disposizione di chiunque la possibilità di avere una relazione con Lui che non è solo per l'oggi, ma per l'eternità. Siete pronti a scoprire chi è veramente Dio?

 

 

 

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Il libro del profeta Gioele è molto breve, il testo ebraico lo suddivide in 4 capitoli (che alcune delle nostre traduzioni correnti riducono a 3, inglobando il terzo capitolo nel secondo). I riferimenti presenti in questa introduzione utilizzano la suddivisione in 4 capitoli.

Sappiamo molto poco di questo profeta, il cui nome significa «Yahweh è Dio», tutto ciò che ci viene detto a suo riguardo si trova in Gioele 1:1: «Parola del Signore, rivolta a Gioele, figlio di Petuel.»
Anche la collocazione temporale dello scritto è incerta. Le ipotesi più probabili lo datano al periodo del primo tempio, durante il regno del re Ioas.

Sostanzialmente, il libro di Gioele si compone di due parti ben distinte, di cui la prima è  incentrata su un'invasione di cavallette e la seconda sulle benedizioni per Israele, dopo il ritorno dall'esilio babilonese, e sul giudizio sui suoi nemici circostanti.

Ogni profeta ha un proprio punto di osservazione e vuole raggiungere dei precisi obiettivi. Gioele, di fronte ad una grande carestia provocata dall'invasione delle cavallette, non la considera un fatto naturale, ma un segno del giudizio di Dio. Dopo aver spronato il popolo al ravvedimento, che effettivamente poi avvenne, lo consola con l'annuncio di una nuova e grande benevolenza da parte del Signore.
Sulla scia delle benedizioni di Dio per il futuro prossimo, Gioele tratteggia le ulteriori benedizioni di Dio per un futuro lontano, nel quale il Signore promette di mandare il suo Spirito su ogni persona e concedere la salvezza a chiunque invochi il suo nome (3:1-5).

L'elemento di maggiore continuità fra le varie sezioni dello scritto di Gioele è l'espressione "giorno del Signore" che si trova in ogni capitolo (1:15; 2:1, 11; 3:4, 4:14).
Dio sopporta il male più di quanto noi possiamo comprendere, ma la sua pazienza non dura in eterno. Quando Gioele annuncia il "giorno del Signore" è come se dicesse che la pazienza di Dio è agli sgoccioli e sta per arrivare la sua ira.
Di "giorno del Signore" parlano anche altri profeti (come Isaia, Ezechiele, Amos, Abdia, Sofonia, Malachia), sia in maniera diretta che in maniera indiretta. La conclusione che se ne può trarre esaminando il contesto dei vari passi è che, quando un profeta parla di un giorno del Signore, si riferisce ad un particolare momento nel quale Dio manifesterà il suo giudizio. Ci sarà poi un gran Giorno del Signore, con il giudizio finale da parte di Dio.

Il libro di Gioele, però, non termina con il giudizio di Dio sul peccato del suo popolo, ma trasmette speranza con l'annuncio delle benedizioni per Israele, che sarebbe ritornato dall'esilio:

«Giuda e Gerusalemme, invece, saranno sempre abitate e io, il Signore, abiterò sul monte Sion» (4:20-21).

In tutta la Bibbia vediamo come Dio ami abitare fra gli uomini, le sue creature che Egli desidera salvare dalla loro condizione di peccato (e quindi di lontananza da Lui), per poterle avere un giorno sempre con sé. Per questo, Gesù si è addirittura incarnato in un corpo umano ed è venuto ad abitare fra gli uomini, portando loro la Buona Notizia della salvezza tramite il suo sacrificio sulla croce, con il quale ha pagato per i peccati di ogni persona!

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Il libro di Osea si colloca fra il 786 e il 724 a.C. circa, durante i regni di Uzzia, Iotam, Acaz ed Ezechia nel regno di Giuda (o regno del Sud) e Geroboamo II nel regno di Israele (o regno del Nord).
Con 8 citazioni, Osea è il terzo profeta più citato nel Nuovo Testamento.
Il suo libro, suddiviso in 14 capitoli, presenta una struttura circolare, in quanto si susseguono 6 annunci del giudizio di Dio, a ciascuno dei quali ne segue uno di grazia.
Lo scopo della profezia di Osea era quello di chiamare Israele al pentimento, profetizzare sulla causa della deportazione a Babilonia, dovuta all'infedeltà del popolo, e predire la restaurazione.
Come Amos, Osea incentra la sua profezia sul regno di Samaria (Israele), ma facendo riferimento ogni tanto anche a quello di Giuda, che valuta in genere come simile al primo. Ciò è significativo perché in realtà, la condizione di quest'ultimo era sensibilmente migliore e la degenerazione non era ancora così avanzata. Evidentemente, il profeta vedeva già con anticipo che nel regno del Sud si era imboccata la stessa strada nel regno del Nord.

In questo libro profetico, Dio viene paragonato soprattutto ad un marito, ma anche ad un fidanzato e ad un padre. Egli ordina al profeta di prendere in moglie una prostituta e simboleggiare così la relazione fra Lui stesso ed il popolo di Israele, che adorava altri idoli ed era infedele al suo Dio:

«Va', prenditi in moglie una prostituta e genera figli di prostituzione, perché il paese si prostituisce abbandonando il Signore» (Osea 1:2).

La "moglie Israele" aveva tradito sistematicamente Dio e si era ampiamente meritata il ripudio, ma Dio ne avrebbe avuto poi compassione e l'avrebbe corteggiata di nuovo come da fidanzato, legandola a sé «per l'eternità» (3:19).
Osea annuncia ripetutamente il giudizio di Dio su Israele, ma poi PER GRAZIA la condanna viene trasformata in salvezza. Osea avverte il regno del Nord della futura deportazione in Assiria e vive fino a vederla realizzarsi. Il profeta avvisa il popolo molto chiaramente che la sua condizione di peccato davanti a Dio era più grave che mai e doveva aspettarsi il castigo di Dio. Israele aveva conosciuto il Signore mediante la liberazione dall'Egitto e Dio stesso aveva detto: «Voi avete visto quello che ho fatto agli Egiziani e come vi ho portato sopra ali d'aquila e vi ho condotti a me» (Esodo 19:4). Eppure erano stati così ciechi da tornare ad adorare una statua raffigurante un vitello d'oro.

«Desidero bontà, non sacrifici, e la conoscenza di Dio più degli olocausti» (Osea 6:6)
«Tornate al Signore! Ditegli: "Perdona tutta l'iniquità e accetta questo bene; noi ti offriremo, invece di tori, l'offerta di lode delle nostre labbra."» (Osea14:2)

Qualcosa di simile avrebbero detto anche altri profeti e lo aveva già detto Samuele a Saul: «Ubbidire è meglio del sacrificio, dare ascolto vale più che il grasso dei montoni» (1 Samuele 15:22). Dio aveva richiesto ad Abramo di avere fede, non di moltiplicare i sacrifici. Nella legge di Mosè, i sacrifici erano forme che dovevano esprimere una sostanza, ma per Dio la sostanza è stata sempre più importante della forma: a Lui non interessa un'adorazione puramente formale, ma che il nostro cuore gli appartenga con fedeltà.

Dal libro di Osea impariamo che Dio continua ad amare incondizionatamente il suo popolo anche quando si svia, e desidera riportarlo a sé, anche se non se lo merita.
E anche noi, come umanità, ci siamo sviati e non meritiamo l'amore di Dio, ma, per la sua misericordia, Lui vuole ugualmente riportarci a sé, offrendoci il suo perdono e la vita eterna al posto di un'eternità di lontananza da Lui.

 

28 osea

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27 daniele 

 

Forse non lo immaginate, ma la città più nominata nella Bibbia, dopo Gerusalemme, è Babilonia e proprio in questa famosa città si svolge la storia raccontata nel libro del profeta Daniele.

Il periodo di maggiore splendore per Babilonia fu durante il regno di Nabucodonosor, che regnò per ben 45 anni, rivelandosi uno dei più geniali e potenti monarchi di tutti i tempi. Sotto di lui, i Babilonesi assediarono a più riprese Gerusalemme e, alla fine, la conquistarono, distruggendo il tempio (586 a.C.). Nabucodonosor deportò per primi i nobili e i migliori giovani del regno di Giuda per destinarli al servizio di corte. Fra questi giovani c’era Daniele: con molta probabilità, era parente del re di Giuda ed era ancora adolescente quando fu deportato, dopo il primo assedio di Gerusalemme.
Daniele e tre suoi compagni assimilarono così tutta la sapienza dei Babilonesi e, ammessi al servizio del re, fu loro affidato il comando della provincia di Babilonia (Daniele sarebbe poi diventato addirittura primo ministro). Quei giovani furono disposti a rischiare la vita per rimanere fedeli a Dio (potete leggere la storia al capitolo 3), erano determinati ad onorare il Signore, che concesse loro una particolare protezione.
Durante il regno di Baldassar, Daniele fu destituito, ma in seguito fu reintegrato nel suo incarico e mantenne, dopo il crollo dell’impero babilonese, un’alta carica al servizio di Dario il Medo e di Ciro, re di Persia.  Daniele, dunque, visse oltre i 70 anni che vanno dalla deportazione di Giuda sotto Nabucodonosor fino al rientro degli esuli sotto Ciro. Egli fu un servitore fedele che rese testimonianza a Dio presso i più potenti re del suo tempo. Non sappiamo né quando né come morì.
Il profeta Ezechiele, che fu suo contemporaneo anche lui in esilio, dichiarò che Daniele dava un notevole esempio di rettitudine e di sapienza (Ezechiele 14:14; 28:3).

Il libro di Daniele fu scritto da lui stesso durante l'esilio. La sua autenticità è confermata da Gesù stesso, che lo cita espressamente, indicando proprio Daniele come autore (Matteo 24:15).
La struttura è particolare, definibile grossomodo "a cerchi concentrici", cioè che parte da una visione generale per poi concentrarsi sempre di più su alcune questioni specifiche.
Le parti del libro che riguardano il popolo ebraico sono scritte in ebraico, quelle che riguardano gli altri popoli in aramaico, la lingua commerciale e diplomatica del tempo.

All'inizio del libro viene subito puntualizzato quanto già espresso in 2 Cronache, cioè che Nabucodonosor saccheggiò il tempio non perché era più forte di Dio, ma perché fu Dio stesso a dargli nelle mani Ioiachim, re di Giuda.
Nella prima parte, si può leggere di Daniele e dei suoi tre compagni che si preparano al servizio di corte. Attraverso la loro vita, l'onnipotenza e l'onniscienza di Dio risaltano in maniera meravigliosa.
Con il capitolo 6, finisce la parte prevalentemente storica, poi c'è l'esposizione delle visioni avute da Daniele, con le prime due (capitoli 7 e 8) che riguardano la storia universale e approfondiscono la visione avuta da Nabucodonosor in 2:28-45. I capitoli finali (9-12) si concentrano invece sul popolo di Dio, prima in modo riassuntivo (le famose "settanta settimane") e poi molto dettagliato.

Le rivelazioni date a Daniele anticipano la scomparsa dell’impero che aveva conquistato Israele e l’avvento di altri imperi, fino alla preparazione del regno del Messia, che sarebbe stato universale ed eterno.
Daniele fa esplicito riferimento alla venuta di Gesù. Al capitolo 9 si fa cenno dell’apparire di un “unto” (in greco “Cristo” e in ebraico “Messia”) che sarebbe stato ucciso.
Inoltre, al capitolo 7:13-14 leggiamo:


«Io guardavo, nelle visioni notturne, ed ecco venire sulle nuvole del cielo uno simile a un figlio d'uomo;
egli giunse fino al vegliardo e fu fatto avvicinare a lui; gli furono dati dominio, gloria e regno,
perché le genti di ogni popolo, nazione e lingua lo servissero. Il suo dominio è un dominio eterno che non passerà, e il suo regno è un regno che non sarà distrutto.»

Gesù attribuì a se stesso questo brano, durante l’interrogatorio che precedette la sua condanna a morte (si può leggerlo nel Vangelo secondo Marco, capitolo 14, versetto 62). Abbiamo dunque la sua autorevole conferma: nella visione notturna, Daniele vide Gesù Cristo.
Daniele ci dice che «giunse fino al vegliardo e fu fatto avvicinare a lui.»
Le Scritture ci insegnano che «dopo aver fatto la purificazione dei peccati, Gesù si è seduto alla destra della Maestà nei luoghi altissimi» e il Padre lo ha accolto alla sua destra come nostro avvocato, che intercede a favore di coloro che gli appartengono (come è scritto nella lettera agli Ebrei 7:25). Il Padre lo ha fatto avvicinare a sé, affinché tutti noi potessimo avvicinarci a Lui. A Cristo, inoltre, viene dato il dominio e un regno eterno: l’universo e la storia gli appartengono.

Il libro di Daniele contiene molte rivelazioni di Dio e non possiamo avere dubbi sul fatto che abbia un messaggio anche per noi oggi, anche se non tutti i suoi contenuti sono facilmente comprensibili. Vi invitiamo ad approfondire questo libro con l'ausilio del programma radio «Il Libro più letto».

 

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La lettera agli Efesini è uno dei libri del Nuovo Testamento che più riscuote interesse ed apprezzamento fra i lettori. Il motivo è costituito dai suoi contenuti teologici, dalle espressioni di preghiera e di adorazione e dai consigli pratici che vi si trovano.

Efeso era un prospero centro commerciale sulle rive del mare Egeo, alle porte dell’Asia minore. Era celebre soprattutto per il tempio di Diana, una delle sette meraviglie del mondo. L’apostolo Paolo rimase tre anni ad Efeso (Atti degli Apostoli 20:31) e la sua missione portò molti risultati. Ogni giorno insegnava nella scuola di un certo Tiranno (Atti 19:9) e da Efeso, la Parola di Dio si diffuse in tutte le province dell’Asia, mentre una solida testimonianza si stabilì in città. I credenti, in un primo momento, si incontravano nella casa di Aquila e Priscilla (Atti 18:26 e 1 Corinzi 16:19), la coppia di cristiani ebrei che aveva collaborato con Paolo a Corinto.
Di ritorno dal suo terzo viaggio missionario, l’apostolo Paolo organizzò un incontro con i responsabili della chiesa di Efeso (Atti 20:17-38). Ormai la comunità cristiana era ben fondata sulle Sacre Scritture e l’apostolo, prima di salutarli per l’ultima volta, li esortò a proteggere la chiesa a loro affidata dai i nemici della fede e a rimanere saldi nella verità del Vangelo.


La lettera agli Efesini, come pure quelle ai Colossesi, ai Filippesi e a Filemone, fu scritta da Roma mentre Paolo era in prigione.
Il libro degli Atti degli apostoli racconta dell’arrivo di Paolo a Roma sotto scorta armata e dei due anni trascorsi agli arresti domiciliari in una casa presa in affitto. È probabile che uno dei primi pensieri di Paolo, durante la prigionia, sia stato quello di scrivere ai suoi cari fratelli in fede, ed è in tale circostanza che l’apostolo inviò quattro lettere ricche di lode e adorazione a Cristo.
Siamo intorno all’anno 60 e Paolo si presenta non come prigioniero di Cesare, ma come prigioniero di Cristo (3:1), perché le sue catene contribuiscano ad incoraggiare i credenti che soffrono per la fede (3:13).

Entriamo ora nel merito del contenuto della lettera agli Efesini.
Si tratta di uno scritto focalizzato sulla chiesa. La chiesa è un organismo universale composto da singoli individui, cioè tutti coloro che sono salvati mediante la fede in Cristo Gesù. Una nuova unità è stata creata da Dio attraverso l’opera riconciliatrice della croce (2:16). In tal modo, ebrei e pagani sono entrati a far parte della famiglia di Dio, in cui sono abbattute tutte le barriere razziali, culturali e sociali.
C’è una sola chiesa e Cristo ne è il Capo.
L’apostolo Paolo usa tre figure per descrivere la chiesa:

  • Al capitolo 2 essa è raffigurata come un edificio, dal versetto 20 al 22 leggiamo: «Siete stati edificati sul fondamento degli apostoli e dei profeti, essendo Cristo Gesù stesso la pietra angolare, sulla quale l'edificio intero, ben collegato insieme, si va innalzando per essere un tempio santo nel Signore. In lui voi pure entrate a far parte dell'edificio che ha da servire come dimora a Dio per mezzo dello Spirito.»
  • La seconda immagine, proposta al capitolo 4, è quella del corpo: «Vi è un corpo solo e un solo Spirito, come pure siete stati chiamati a una sola speranza, quella della vostra vocazione» (v.4). «È lui (Cristo) che ha dato alcuni come apostoli, altri come profeti, altri come evangelisti, altri come pastori e dottori, per il perfezionamento dei santi in vista dell'opera del ministero e dell'edificazione del corpo di Cristo» (11-12). «... seguendo la verità nell'amore, cresciamo in ogni cosa verso colui che è il capo, cioè Cristo. Da lui tutto il corpo ben collegato e ben connesso mediante l'aiuto fornito da tutte le giunture, trae il proprio sviluppo nella misura del vigore di ogni singola parte, per edificare sé stesso nell'amore»(15-16).
  • Infine, la chiesa è rappresentata come una sposa. Capitolo 5, dal versetto 25 a 30: «Mariti, amate le vostre mogli, come anche Cristo ha amato la chiesa e ha dato se stesso per lei, per santificarla dopo averla purificata lavandola con l'acqua della parola, per farla comparire davanti a sé, gloriosa, senza macchia, senza ruga o altri simili difetti, ma santa e irreprensibile. Allo stesso modo anche i mariti devono amare le loro mogli, come la loro propria persona. Chi ama sua moglie ama se stesso. Infatti nessuno odia la propria persona, anzi la nutre e la cura teneramente, come anche Cristo fa per la chiesa, poiché siamo membra del suo corpo.»

Nei primi tre capitoli, mentre sviluppa nel lettore il concetto di chiesa, l'apostolo focalizza sul ruolo di Cristo per tutti coloro che credono, sul concetto di grazia (qui puoi leggere l'approfondimento"La grazia e la giustizia: perchè Dio ci perdona?") e sull'unione che deriva dall'esperienza personale di Cristo confermata dallo Spirito Santo.
Infine, i capitoli 4, 5, e 6 insegnano quali dovrebbero essere le conseguenze pratiche per la vita e le relazioni umane: esortano a ricercare la santificazione in ogni aspetto della vita come conseguenza del rapporto con Dio, senza trascurare l'aspetto della lotta spirituale, che è possibile solo usando l’armatura completa di Dio (capitolo 6, dal versetto 10).

Bisogna notare che non c’è nessuna divisione netta tra la dottrina e l’etica, le quali sono strettamente interconnesse in quanto la seconda deriva dalla prima. Nell’autentico insegnamento cristiano non c’è uno scollamento tra la dottrina e il comportamento, ma lo stile di vita del cristiano è modellato giorno dopo giorno dall’insegnamento che si riceve dalle Sacre Scritture.

La lettura della lettera agli Efesini risulta scorrevole e coinvolgente: ti invitiamo ad assaporarne le parole attentamente. Buona lettura!

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L’Apocalisse è un’opera drammatica, piena di simboli, non sempre immediatamente comprensibile.
Molti lettori sfogliano l’ultimo libro della Bibbia per trovarvi indicazioni sul futuro. Ma Dio non ci ha dato questo testo per soddisfare la nostra curiosità. Come tutti i libri che compongono la Bibbia, l’Apocalisse trasmette un messaggio che riguarda ognuno di noi, ieri, oggi, e domani.
La parola “Apocalisse” deriva da un termine greco che significa “rivelazione”. Secondo il primo versetto del libro, si tratta di una rivelazione di Gesù Cristo data da Dio e riguarda le cose che devono accadere. Già i primi cristiani, con il termine “Apocalisse”, volevano indicare la manifestazione gloriosa di Cristo alla fine dei tempi.
È l’unico libro della Sacra Scrittura in cui viene promessa una benedizione speciale a chi lo legge:

«Beato chi legge e beati quelli che ascoltano le parole di questa profezia e fanno tesoro delle cose che vi sono scritte, perché il tempo è vicino!» (Apocalisse 1:3).


Questo testo conclude la rivelazione biblica e deve essere interpretato alla luce di tutta la Sacra Scrittura. I suoi 22 capitoli contengono centinaia di citazioni dell’Antico Testamento ed è necessario conoscere bene quei testi per comprendere il significato preciso dei personaggi e dei simboli presenti nell’Apocalisse.
Il titolo del libro riporta il nome dell’autore, Giovanni, in cui si riconosce tradizionalmente l'apostolo di Gesù. Secondo diversi autori, il testo fu scritto durante le violente persecuzioni al tempo di Domiziano. Sarebbe quella l’epoca in cui Giovanni fu esiliato a Patmos, un'isola nel mare Egeo, a circa 55 chilometri dalla costa turca. L’uso del tempo passato “ero in Patmos" sembra indicare che, pur avendo avuto le visioni mentre era sull’isola, fu soltanto dopo la sua liberazione ed il ritorno ad Efeso che Giovanni scrisse il libro, quindi verso il 96 d.C.


Veniamo ora al contenuto.
Come nel quarto Vangelo, la subordinazione di Gesù a Dio è controbilanciata dall’uguaglianza con lui: sia il Padre che il Figlio portano il titolo di Alfa e Omega (1:8; 22:13); la salvezza è attribuita a entrambi (7:10); i martiri risuscitati sono sacerdoti per entrambi (20:6); condividono da eguali lo stesso regno (11:15; 12:10) ed entrambi sono il tempio della città santa (21:22).
Lo scritto dell'Apocalisse può essere diviso in tre parti, secondo lo schema che troviamo al capitolo 1, versetto 19, dove si legge: 

«Scrivi dunque le cose che hai viste, quelle che sono e quelle che devono avvenire in seguito.»

"Le cose che hai viste" riguardano la visione del Signore stesso glorificato. La scena fu così terribile che Giovanni gli cadde ai piedi come morto. Tuttavia, mediante la sua grazia, Gesù va incontro al suo servitore e Giovanni riporta: «Ed egli mise la sua mano destra su di me, dicendo: “non temere…"» (v. 17).

"Le cose che sono" del versetto 19 si riferiscono allo stato di fatto delle chiese dell'Asia Minore, a cui il Signore stesso si rivolge: Efeso, Smirne, Pergamo, Tiatiri, Sardi, Filadelfia, Laodicea.
Questi messaggi alle chiese seguono uno schema fisso: ognuno presenta una caratteristica del Signore Gesù, una valutazione della chiesa con una lode o un rimprovero. C’è anche una promessa rivolta ai vittoriosi.

Per quanto riguarda le cose "che devono avvenire in seguito", si tratta delle visioni successivamente descritte nel libro.

A questo punto, la scena si sposta dalla terra al cielo. È presentata una visione di Dio circondato di maestà e santità, seguita da una visione dell’Agnello (Cristo) e del libro, cioè un rotolo di pergamena sigillato. Il rotolo occupa un posto centrale nel resto dell’Apocalisse, in quanto tutto ciò che segue è un graduale verificarsi del suo contenuto.
Nella sequenza degli avvenimenti descritti nel libro, il numero sette è una costante: il rotolo sigillato è il libro dei “sette sigilli”; la descrizione di eventi connessi con il suono di “sette trombe”, che esprimono l'inevitabilità del giudizio divino; troviamo poi la visione delle “sette coppe”, segni premonitori del giudizio finale, ed infine sette flagelli.
Dopo che le trombe del giudizio hanno compiuto il loro corso, la scena si prepara per la comparsa del falso messia, l’Anticristo. Questi è chiamato la Bestia nel capitolo 13 e riceve il suo potere da Satana. Da quanto si riesce a comprendere, essa sarà abilmente appoggiata nei suoi piani da una seconda Bestia che, con segni e prodigi, convincerà i popoli della terra ad adorare l’immagine della prima. Si parla pure di due testimoni che saranno uccisi a Gerusalemme; la gioia generale ispirata dalla loro morte non durerà molto, perché i due profeti saranno pubblicamente riportati in vita da Dio. Il regno della Bestia prometterà benessere, come spiega il capitolo 18, ma quando mostrerà il suo vero volto e pretenderà che tutti gli uomini portino il suo marchio, Dio interverrà.
Le due bestie saranno gettate in un lago di fuoco e Satana sarà incatenato per mille anni. Alla fine del millennio, egli sarà sciolto e capeggerà l’ultima ribellione contro il Signore. Un duro giudizio si abbatterà sul mondo e poi tutti i morti di tutte le età saranno convocati per apparire davanti al grande trono bianco. In quest’ultimo terribile processo, gli uomini saranno giudicati secondo le loro opere e subiranno una giusta condanna.

Il libro dell’Apocalisse si conclude con la visione della città celeste, dalla quale sono esclusi per sempre tutti quelli che si sono opposti a Dio.
Prima che l’ultimo "amen" sia pronunciato, per ben tre volte il Signore proclama il suo ritorno. Così arriviamo all’ultima preghiera che troviamo nella Sacra Scrittura:

«Vieni, Signore Gesù!»

La venuta del Signore è uno dei primi avvenimenti di cui parla il libro e le sue ultime parole sono la preghiera di Giovanni perché ciò avvenga presto. Cristo torna. Il più grande evento della storia umana avverrà sulle nuvole, in potenza e gloria, visibile a tutto il mondo. Sarà un giorno di angoscia e di terrore per quelli che lo hanno respinto e un giorno di indicibile gioia per coloro che gli appartengono. Nel libro degli Atti degli apostoli al capitolo 1, versetti dal 9 all'11, è detto che Gesù è asceso in cielo in una nuvola e «verrà nella stessa maniera». Gesù venne la prima volta nel tempo stabilito e ritornerà nuovamente al momento fissato.
Come si è detto, l'Apocalisse presenta molti riferimenti all’Antico Testamento, in particolare al libro di Daniele. Inoltre, si possono tracciare importanti confronti tra la Genesi e l’Apocalisse: la Genesi racconta il paradiso perduto, l’Apocalisse il paradiso ritrovato; il giardino dell’Eden della Genesi cede il posto alla città di Dio dell’Apocalisse; l’albero della vita della Genesi riappare nell’Apocalisse. Il serpente compare nel primo libro della Bibbia e trova il suo giudizio nell’ultimo. Il peccato, il dolore, le lacrime e la maledizione fanno tutti la loro comparsa in Genesi e scompaiono nella Rivelazione di Giovanni. Questo libro è il naturale completamento di tutto ciò che Dio ha voluto rivelarci fin dalla Genesi.

Attraverso le profezie, Cristo riempie le pagine dell’Antico Testamento. I Vangeli lo presentano nella sua umanità, gli Atti e le lettere degli apostoli ci spiegano che opera per mezzo dello Spirito Santo. L’Apocalisse presenta Cristo che entra in possesso del suo regno universale e agisce con potenza nel mondo futuro. E la rivelazione di Dio termina con questa frase:

«La grazia del Signore Gesù sia con tutti.»

La Bibbia conclude con una porta spalancata verso l’umanità, a favore di tutta l’umanità.
Gesù offre la salvezza per grazia a tutti. Ma oltre a questa meravigliosa offerta troviamo anche una promessa, quella del suo ritorno. Gesù dice: «Ecco, io vengo presto.»

Voi siete pronti ad incontrare Gesù Cristo? Lo incontrerete come giudice o come salvatore? La Genesi è il libro degli inizi, l’Apocalisse quello delle conclusioni.
Dio ha tratto la sua conclusione sin dalla Genesi, aprendo all'uomo la possibilità di riconciliarsi con Lui e vivere eternamente alla sua presenza.
Voi avete tratto le vostre conclusioni?

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