La lettera a Tito e le due lettere a Timoteo sono sempre state trattate dagli studiosi come un gruppo unico, perché hanno tanto in comune, non solo nello stile, ma anche nel contenuto. Molte delle esortazioni in esse contenute sono chiaramente personali, ma allo stesso tempo buona parte del materiale sembra essere destinato alle comunità in cui Timoteo e Tito svolgevano il loro ministero.

Tito era un greco convertitosi inseguito alla predicazione di Paolo. Non viene mai nominato nel libro degli Atti, ma il suo nome compare spesso nelle lettere di Paolo. Come Timoteo, anche Tito era giovane, pieno di talento e intimo amico dell’apostolo. Troviamo il suo nome in collegamento con la chiesa di Corinto, che visitò almeno due volte per risolvere alcune situazioni e portare le lettere di Paolo. Il fatto che Paolo lo scegliesse per compiti così delicati indica che doveva considerarlo un uomo capace, saggio e pieno di tatto.
L’opinione prevalente è che, dopo la liberazione della prima prigionia romana, Paolo sia tornato insieme a Tito verso oriente, facendo tappa a Creta. Siamo intorno all’anno 63 d.C. Sappiamo che Tito fu lasciato a Creta per organizzare le chiese. Quest’isola a sud-est della Grecia vantava un’antica civiltà, ma pessimi costumi e morale: è interessante, a riguardo, la citazione del poeta cretese Epimenide (600 a.C.) che Paolo inserisce nella lettera che stiamo esaminando: «Uno dei loro, proprio un loro profeta, disse: “I Cretesi sono sempre bugiardi, male bestie, ventri pigri”» (1:12).

Vediamo ora più da vicino il contenuto di questa lettera.
Fu scritta probabilmente nel 65 d.C., dopo la prima prigionia di Paolo e la successiva scarcerazione. Per la sua somiglianza con la prima lettera a Timoteo, si ritiene sia stata scritta nello stesso periodo. L’una e l’altra trattano lo stesso argomento: la nomina di guide spirituali idonee per le nascenti comunità. Sia Tito a Creta che Timoteo ad Efeso erano chiamati a risolvere problemi simili: stabilire degli anziani in ogni città (1:5), esporre insegnamenti conformi alle Sacre Scritture (2:1) e ricordare l’autorità certa della Parola di Dio (1:9).
Per tali argomenti, la lettera a Tito, e le due indirizzate a Timoteo, sono importanti anche per la nostra età moderna. Esse hanno sempre fornito saggi consigli pratici ai responsabili delle chiese cristiane.


Il primo capitolo tratta della costituzione degli anziani (detti anche vescovi) in alcune chiese locali dell’isola di Creta. Paolo riferisce con cura ciò che Tito doveva riscontrare in coloro che sarebbero stati preposti alla guida della chiesa. Due importanti requisiti erano la capacità nell’insegnare e la presenza di un temperamento trasformato dall’opera di Dio nella propria vita. L’apostolo, inoltre, riassume brevemente l’impatto che la vera conversione necessariamente produce nell’individuo (3:3-8). Altrimenti, per dirla con il noto predicatore Spurgeon, «Se il tuo cuore non è santo e la tua vita non è trasformata, non sei salvato. Se il Salvatore non ti ha santificato, rinnovato dandoti amore per la santità e odio per il peccato, non puoi essere una nuova creatura. La Grazia che non ci rende meglio dei perduti non può essere grazia.»
L’idea centrale che riscontriamo in questa lettera è che le buone opere non costituiscono la base della salvezza, ma ne sono certamente la dimostrazione.
Quelli che si dicono cristiani devono dimostrarlo portando frutti degni della fede che è in loro. A questo proposito vi invitiamo, a leggere il breve approfondimento «Fede o buone opere: cosa viene prima?».

Gli altri due capitoli affrontano il tema del comportamento delle varie categorie di membri della chiesa locale. Giovani, vecchi, uomini e donne, casalinghe e lavoratori, in ogni ambito della vita i cristiani devono manifestare la grazia di Dio.
Paolo menziona anche in questa lettera il ritorno di Gesù e ne parla come di una verità molto pratica e concreta. Il fatto che Gesù tornerà sulla terra non viene mai presentato come un discorso astratto per soddisfare le nostre curiosità sul futuro, ma uno stimolo a vivere una vita santa in attesa del Suo ritorno.

Tu sapevi che Cristo ritornerà? Scrivici per saperne di più!

 

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Il nome Timoteo letteralmente significa “colui che onora Dio”.
Egli era un giovane credente di Listra (Atti degli Apostoli 16:1), nell’odierna Turchia, figlio di un greco e di una donna ebrea. La madre e la nonna di Timoteo lo avevano educato alla conoscenza delle Sacre Scritture sin dalla sua infanzia (2 Timoteo 1:2). Timoteo godeva di una buona reputazione tra i credenti di quella regione, tanto che Paolo nel suo secondo viaggio missionario, ripassando da quelle zone, lo volle come collaboratore. Da allora lavorò fianco a fianco nell’opera del Vangelo con Paolo, il quale, a volte, lo mandava in missione con dei compiti particolari.

La prima lettera a Timoteo riporta che egli ricevette l’incarico di recarsi nella chiesa di Efeso per risolvere dei problemi che vi si erano venuti a creare (1:3).
Anche lui, come Paolo, finì in prigione per la fede ed infatti in Ebrei 13:23 si accenna ad una scarcerazione. La tradizione vuole che sia morto martire in un tumulto popolare ad Efeso, sotto l’imperatore Nerva. La particolare situazione storica dietro queste due lettere non è facile da ricostruire. Sono indicati luoghi geografici dove Paolo si era recato di recente, ed è evidente che poco prima di scriverle, egli aveva viaggiato in Asia, a Creta ed in varie parti d’Europa. Sembra che l'apostolo sia ritornato a Roma nel periodo in cui scriveva la seconda lettera a Timoteo.
È difficile inserire tali dati storici nel racconto riportato nel libro degli Atti degli apostoli, dunque è probabile che i movimenti di Paolo descritti in queste lettere debbano essere collocati dopo gli arresti domiciliari menzionati alla fine del libro degli Atti.
Paolo sembra rendersi conto che il suo tempo su questa terra sta finendo e la sua preoccupazione è dare delle linee guida a coloro che continueranno la sua missione e occuperanno posti di responsabilità. Egli sta valutando la necessità di confermare certe disposizioni per l’organizzazione della chiesa e indicazioni riguardo ai responsabili delle comunità, istruzioni che aveva già trasmesso oralmente ai suoi collaboratori (Tito 1:5).

Nella prima lettera, Paolo manda al suo discepolo una serie di consigli pratici, per aiutarlo a trattare con saggezza i problemi che sorgevano nella comunità cristiana di Efeso. Ad Efeso le conversioni si moltiplicavano e i cristiani si riunivano in centinaia di piccoli gruppi in varie case, sotto la guida di alcuni anziani o vescovi. Sembra che il compito principale di Timoteo fosse quello di preparare gli anziani a svolgere il loro compito di cura pastorale, infatti Paolo fornisce un quadro completo delle responsabilità di un servitore di Dio.
Timoteo viene incoraggiato ad essere un esempio e a mantenere un fermo atteggiamento contro le false dottrine.
Al termine Paolo si sofferma sul malsano desiderio di diventare ricchi e sul pericolo di considerare la religione come fonte di guadagno. «L’amore per il denaro »- scrive - «è la radice di tutti i mali.»

La seconda lettera che Paolo scrisse a Timoteo è anche l'ultima di cui abbiamo testimonianza, cronologicamente parlando (siamo intorno all’anno 65), e possiamo considerarla il suo testamento spirituale. Paolo si avvicina alla fine della sua vita: è a Roma, ma stavolta incatenato come un criminale (2:9). Abbandonato da quasi tutti, attende il martirio (4:6). Nel frattempo, i cristiani si perdono in chiacchiere inutili (2:16), ci sono quelli che si oppongono alla verità del vangelo (3:8), mentre alcuni addirittura se ne allontanano, sotto l’influenza di falsi insegnanti (4:3-4).
Così questi quattro capitoli contengono le commoventi esortazioni di un uomo di Dio, ormai vecchio, che trasmette le sue ultime istruzioni al discepolo Timoteo. Con fervore lo incoraggia a perseverare, a esortare i credenti, ad adempiere al suo ministero di evangelista. Paolo ricorda a Timoteo la grande eredità spirituale ricevuta dalla madre Eunice e dalla nonna Loide. Era stato chiamato ad essere guida per la chiesa, doveva farsi coraggio e lasciare da parte le sue paure. Con una serie di brevi immagini, Timoteo riceve indicazioni da cui trarre ispirazione per forgiare il suo temperamento: per essere come un soldato, un atleta, un agricoltore, uno che sa soffrire, che sopporta la fatica.
In 83 versetti Paolo descrive incisivamente le diverse caratteristiche della vera vita cristiana, rilevando che non si cammina con Cristo senza soffrire, e questo pensiero è come un riflesso dell’ultima esperienza che egli sta vivendo. Lo consola il fatto che può contare su Timoteo che è in grado di prendere il testimone dalla sua mano, quando egli stesso avrà terminato la sua corsa.

A chiusura della lettera, Paolo parla di se stesso, dando l’immagine di un uomo solo, abbandonato dagli amici, desideroso del suo mantello per scaldarsi e di riavere i suoi libri. Desidera avere una presenza amica nell’ora della prova e invita il suo caro Timoteo a raggiungerlo prima che arrivi l’inverno.

C’è un tema che viene ripetuto e può essere usato come chiave di lettura. Per ben quattro volte l’apostolo usa l’espressione “Non avere vergogna ” (1:8, 12, 16, 2:15).

Questa frase è ancora oggi un'esortazione per ciascuno di noi: Cristo non ha avuto vergogna di insegnare, guarire, essere deriso, fustigato, ucciso per salvarci.

Noi siamo pronti a non avere vergogna di Lui?

 

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Diamo prima alcuni cenni sulla città di Tessalonica. Fu fondata da Cassandro verso il 317 a.C. nei pressi dell'antica Terme e chiamata Tessalonica dal nome di sua moglie, sorella di Alessandro Magno. Era la principale città della Macedonia, ma anche al tempo dell’impero Romano mantenne la sua importanza, perché, oltre ad avere un importante porto commerciale, era attraversata dalla via Ignazia, la grande strada militare che da Roma andava verso l’Oriente. Con l’attuale nome di Salonicco è ancora oggi la seconda città della Grecia e un importante porto marittimo.

Il racconto della nascita della chiesa a Tessalonica lo troviamo nel libro degli Atti al capitolo 17 (1-10). La chiesa venne fondata verso il 51 d.C., durante il secondo viaggio missionario di Paolo. L'apostolo era arrivato in città in compagnia di Sila e Timoteo e, come era sua consuetudine, si era recato alla sinagoga, dove aveva cominciato a predicare il messaggio di Cristo, dimostrando ai Giudei, sulla base delle loro stesse Scritture, che Gesù è il Messia. Parecchi accolsero il Vangelo e fra questi un buon numero di persone provenienti dal paganesimo. Ma l’opposizione da parte delle autorità della comunità ebraica indusse Paolo ad abbandonare la sinagoga e cercare un’altra sede in cui esporre il Vangelo; anche in quella situazione, però, l'opposizione fu talmente forte che i missionari furono costretti a lasciare la città. I tre compagni di viaggio si recarono a Berea. Paolo lasciò sul posto Sila e Timoteo e prosegui da solo verso Atene. Era in ansia per la giovane chiesa di Tessalonica, così quando fu raggiunto dai suoi due compagni, rimandò immediatamente indietro Timoteo per raccogliere notizie sui nuovi convertiti di Tessalonica e, nel frattempo, da Atene si trasferì a Corinto. Timoteo lo raggiunse con buone notizie. I cristiani di Tessalonica stavano affrontando coraggiosamente la persecuzione. Queste notizie sollevarono lo spirito di Paolo, il quale, procuratosi inchiostro e pergamena, scrisse la sua prima lettera ai Tessalonicesi.

In questa lettera, Paolo ringrazia Dio per i credenti di Tessalonica, per come hanno accolto la buona notizia del Vangelo e sono divenuti, quindi, un esempio per altri che lo vorrebbero ascoltare. Nella prima sezione della lettera, l'apostolo spiega loro come affrontare con fermezza le avversità che stanno attraversando. La seconda sezione inizia con un’esortazione ad una vita santa. Paolo arriva poi a parlare del ritorno di Cristo e questo gli offre l’occasione per esortarli ad una vita vigilante. Il motivo di questa sezione, dedicata agli avvenimenti futuri, sembra dovuto alla preoccupazione di alcuni cristiani di Tessalonica per la sorte di quelli che, nella loro comunità, erano morti prima del ritorno di Cristo. Paolo chiarisce che coloro che muoiono prima di questo evento parteciperanno ugualmente alla sua venuta.

Passiamo adesso alla seconda lettera, scritta probabilmente pochi mesi dopo la prima. Anche in questo caso troviamo un accenno alla perseveranza dei cristiani di Tessalonica e al fatto che essi erano un esempio per gli altri. Sembra che alcuni credessero che il ritorno del Signore fosse già avvenuto; Paolo risponde parlando degli eventi che devono aver luogo prima di quel giorno. L’apostolo spiega che, prima che il Signore ritorni, devono realizzarsi due condizioni: ci dovrà essere l'abbandono della fede da parte di molti e l'Anticristo dovrà venire sulla terra. Questo passo è molto importante, perché spiega come saranno i tempi dell’Anticristo.

Dunque, mentre la prima lettera ai Tessalonicesi mette in evidenza l’imprevedibilità dell’arrivo di quel giorno “come un ladro di notte”, per usare un’espressione dell’apostolo, la seconda insiste su certi eventi che devono precedere il ritorno del Signore (capitolo 2).

Più avanti, Paolo affronta in particolare il problema di coloro che si rifiutavano di lavorare. Era giusto che i Tessalonicesi si preparassero al ritorno del Signore, ma alcuni di loro pensavano addirittura che esso fosse così imminente che non valesse più la pena di guadagnarsi onestamente la vita lavorando con le proprie mani. Alcuni credenti erano così convinti che avevano smesso di lavorare, vivendo disordinatamente, ma ciò non costituiva certo una buona testimonianza. Paolo corregge i cristiani di Tessalonica, dicendo loro chiaramente che l’avvento del Signore non sarebbe stato immediato e li esorta a tornare a lavorare. Presenta, allora, come esempio di fatica e di autosufficienza economica il lavoro che egli e i suoi collaboratori avevano svolto mentre erano a Tessalonica.

Paolo conclude la lettera augurando ai Tessalonicesi la pace del Signore e con un saluto scritto di suo pugno.

 

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Situata nella valle del fiume Lico, nell’odierna Turchia, Colosse era una piccola città, meno importante delle vicine Laodicea e Ierapoli. In tutti e tre questi centri si erano costituite delle chiese cristiane (4:13). Paolo aveva attraversato la regione già due volte, nel secondo e nel terzo viaggio missionario (Atti degli Apostoli 16:6, 18:23). Con molta probabilità, la chiesa fu il risultato dell’opera di Paolo a Efeso, distante circa 160 chilometri da Colosse. L’effetto della predicazione di Paolo a Efeso fu di notevole e vasta portata, possiamo dunque immaginare che qualche cittadino di Colosse, avendo udito il Vangelo a Efeso e accettato la fede in Cristo, avesse in seguito fondato una chiesa nella sua città di origine.

La lettera ai Colossesi è stata scritta con tutta probabilità durante la carcerazione romana di Paolo, intorno al 62 d.C.

Epafra, credente e responsabile della chiesa, aveva raggiunto Paolo (1:7-8) per parlargli della situazione che si era creata a Colosse. Diversi riferimenti ci fanno capire che alcuni stavano cercando di persuadere i Colossesi a seguire insegnamenti fuorvianti. Paolo scrive alla chiesa per correggere questi insegnamenti e riportare i credenti a focalizzare sulla persona di Cristo.

I primi capitoli sono dedicati all’esposizione della dottrina cristiana, in cui Cristo è il perno attorno al quale ruota tutto il discorso. Gesù ha il primato in ogni cosa (1:18). La sua preminenza è dovuta al fatto che egli è l’immagine di Dio (1:15) e la pienezza di Dio (1:19). Gesù è il Creatore (1:16) ed è il capo della chiesa (1:18). La sua opera è stata completa: può liberare dal potere delle tenebre (1:13) e può redimerci dal peccato (1:14). Tutte le cose sono riconciliate con Dio mediante il sangue della croce (1:20ss.) e sempre attraverso la croce, le potenze spirituali sono state disarmate (2:15). Cristo inoltre è la vita del credente (3:4).

Qualcuno ha riassunto la lettera ai Colossesi con una parola: pienezza. Infatti Gesù Cristo è pienamente Dio (2:9, 1:15), pienamente glorioso nella sua ricchezza (1:27), pienamente Signore sulla chiesa (1:18, 2:6) e pienamente trionfante sulle potenze del male (2:15). In lui si trovano tutta la pienezza di Dio (1:19) e tutti i tesori della sapienza e della conoscenza (2:3). In lui il Padre ha riconciliato con sé tutte le cose (1:20). Gesù Cristo ha compiuto in modo definitivo e pieno l’opera di salvezza (1:14, 2:13-14). Egli è prima di ogni cosa , sopra ogni cosa, è capo della chiesa, principio della realtà, primogenito di ogni vita (1:15-20). “Egli è prima di ogni cosa e tutte le cose sussistono in lui” (1:17), dunque tutta la realtà è comprensibile alla luce di Cristo.

Nei capitoli seguenti, Paolo rivolge la sua attenzione a questioni di ordine pratico; gli insegnamenti devono avere degli effetti concreti per la vita e le relazioni umane. L’apostolo afferma che una dottrina sana si esprime in una vita santa. Il cristiano è “risorto con Cristo”, vive per Cristo e deve, dunque, manifestare la vita di Cristo in ogni situazione della sua esistenza. Non c’è rottura tra la dottrina e il comportamento, semmai il comportamento è determinato dagli insegnamenti ricevuti. Se la persona e l’opera di Cristo si distingue per la sua pienezza, così è della vita cristiana che Paolo descrive in questa lettera. Essa nasce dall’annuncio della totalità della Parola di Dio (1:25), deve essere ricolma della conoscenza della volontà di Dio (1:9) deve abbondare nel ringraziamento (2:7). Insomma, per dirla come Paolo: “voi avete tutto pienamente in Lui” (2:10). I cristiani sono persone che camminano verso la completezza (4:12). Non sono perfetti, ma sono ricolmi della pienezza di Cristo.

Lo gnosticismo tendeva a separare nettamente lo spirito dal corpo; nell'autentico insegnamento cristiano, invece, tutto l’essere vive la vita nella pienezza di Cristo, non ci sono aspetti della vita in cui Cristo deve essere ritenuto un estraneo. I sentimenti, la famiglia, il lavoro, la chiesa, la politica, il tempo libero, i doveri e quant’altro sono sottomessi alla signoria di Cristo e vissuti pienamente. Questa è la vita del vero cristiano.

Soffermiamoci ora su alcuni brani della Lettera ai Colossesi. Al capitolo 1 Cristo è esaltato in quanto Signore della creazione (1:15-17) e non solo, anche autore della riconciliazione. Ecco le parole di Paolo:

«E voi, che un tempo eravate estranei e nemici a causa dei vostri pensieri e delle vostre opere malvagie,
ora Dio vi ha riconciliati nel corpo della carne di lui, per mezzo della sua morte, per farvi comparire davanti a sé santi, senza difetto e irreprensibili”» 
(1:21-22).

Paolo dice che le nostre opere sono malvagie e ci rendono nemici di Dio. Solo attraverso la morte di Cristo possiamo essere riconciliati. Poi al capitolo 2, versetti 13 e 14, usa un’immagine per chiarire come la morte di Cristo realizza la riconciliazione:

«Voi, che eravate morti nei peccati … voi, dico, Dio ha vivificati con lui, perdonandoci tutti i nostri peccati;
egli ha cancellato il documento a noi ostile, i cui comandamenti ci condannavano, e l'ha tolto di mezzo, inchiodandolo sulla croce.»

Il senso del discorso dell'apostolo Paolo è che non possiamo essere salvati per mezzo delle nostre buone azioni, perché le nostre “buone” azioni sono imperfette. Per usare le parole di un profeta dell’Antico Testamento, agli occhi di Dio sono un “abito sporco” (Isaia 64:6).

Non è così che Dio ci salva. La salvezza non consiste nel far pareggiare i conti delle nostre azioni, non è un calcolo da ragioniere dove le buone opere rappresentano le entrate e le cattive opere rappresentano le uscite. Se il metodo è la valutazione delle nostre azioni, non c’è speranza: chiuderemo sempre in passivo. La speranza però c’è, ed è in Cristo.

Paolo dice che tutte le nostre cattive azioni devono essere cancellate dal documento dove si trovano scritte. La cancellazione è avvenuta quando il documento su cui erano elencate le nostre azioni fu “inchiodato alla croce”. In che modo fu “inchiodata” quella lista che ci condannava? Non fu un foglio di carta ad essere inchiodato alla croce, ma Cristo. Fu così che Egli è diventato il documento di condanna che conteneva le mie azioni cattive. È stato Lui a subire la mia condanna. Ed è stato Lui a donarmi la salvezza. Ecco perché Cristo è l’unica via per riconciliarci con Dio.

 

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Paolo scrisse la Lettera ai Filippesi mentre si trovava a Roma; è infatti una delle lettere scritte dalla prigionìa.
L’origine della chiesa di Filippi è descritta dettagliatamente in Atti degli Apostoli 16 (12-40). La prima a nascere in Europa, essa venne fondata verso il 51 d.C., durante il secondo viaggio missionario di Paolo. L’apostolo decise di andare a Filippi in seguito ad una visione, nella quale vide un macedone che gli diceva: «Passa in Macedonia e aiutaci». Paolo ed i suoi collaboratori cambiarono allora i propri programmi e decisero di recarsi in Macedonia. La prima persona a convertirsi fu Lidia, una donna ricca e distinta. Sebbene fosse di origine pagana, era stata attratta dalla fede ebraica ed era timorata di Dio. Quando sentì predicare Paolo, credette in Gesù Cristo e fu battezzata con la sua famiglia. In seguito, Paolo e Sila furono arrestati con una falsa accusa e fu in quell'occasione che il soldato di guardia alla prigione dove essi erano detenuti si convertì con la sua famiglia. Così venne a formarsi il primo nucleo della comunità cristiana.

Ora qualche cenno sulla città di Filippi. La storia e il nome della città sono collegati con Filippo II di Macedonia, padre di Alessandro Magno, che la fece ingrandire e fortificare intorno all’anno 360 a.C. Situata in una regione fertile e ricca di sorgenti, nella parte settentrionale di quella che oggi conosciamo come Grecia, era nota per le sue miniere d’oro. Distrutta dalle guerre, fu ricostruita dall’imperatore Augusto, che ne fece una colonia romana, con tutti i privilegi che un municipio di provincia potesse ottenere. Era abitata prevalentemente da romani, ma c’erano anche macedoni, greci e alcuni ebrei. I suoi abitanti erano fieri di essere cittadini romani.

La scelta di Filippi come luogo di lancio del Vangelo in Europa era conforme alla strategia missionaria di Paolo, il quale, infatti, sceglieva località importanti come trampolini di lancio da cui la Buona Notizia si sarebbe potuta propagare.

Quale motivo spinse Paolo a scrivere questa lettera ai cristiani di Filippi?

L’apostolo desiderava confermare di aver ricevuto il dono in denaro che essi gli avevano inviato per mezzo di uno dei membri della chiesa, Epafròdito. Paolo fu profondamente toccato dalla loro generosità, anche perché il messagggero dei Filippesi aveva rischiato di perdere la vita durante il viaggio (2:25-30; 4:18); quando Epafrodito si riprese, Paolo lo rimandò a Filippi, insieme a Timoteo, con questa bellissima lettera. Le particolari attenzioni che continuamente i cristiani di Filippi mostravano all’apostolo furono per lui sempre motivo di consolazione. Non ci stupiamo quindi che il suo scritto sia carico di affetto e che, in altre occasioni, l’apostolo abbia lodato questi credenti con parole di alta stima (2 Corinzi 8:1-6).

In questo scritto, una caratteristica emerge sulle altre: la gioia che lo permea in tutte le sue parti. La sua lettura è davvero incoraggiante: “gioia” e “rallegrarsi” sono le parole più frequenti.

Vediamo, ad esempio, che l’apostolo gioisce nella preghiera (1:4) e dei risultati delle sue fatiche (4:1), gioisce nel sapere che il Vangelo è predicato (1:18), gioisce nella sofferenza anche se questa dovesse condurre alla morte (2:17). Egli esorta i suoi lettori a rallegrarsi nel Signore (3:1, 4:4). Vuole che essi abbiano la gioia della fede (1:25), la gioia della comunione fraterna (2:28) e che, come lui, si rallegrino anche nella prova e nella sofferenza (1:29).

È impressionante notare come l’autore sia capace di gioire, e incoraggiare alla gioia, in un momento tanto difficile della sua vita. Paolo era prigioniero di Nerone, le sue parole non provenivano dalla pace e dalla tranquillità di una vacanza al mare. Al contrario, chi scriveva stava aspettando una sentenza che avrebbe potuto significare la sua morte.  Paolo sapeva gioire perché era consapevole che la sua unione con Cristo non dipendeva dalle circostanze più o meno favorevoli.

Ecco un riassunto del contenuto della lettera:

Dopo i saluti, Paolo ringrazia Dio per i Filippesi, ricorda la sua costante preghiera per loro, dà alcune notizie sulla sua prigionia, poi racconta le sue esperienze di prigioniero. Esorta i Filippesi a vivere in modo degno del Vangelo di Cristo, seguendo il suo esempio di umiltà. Nel capitolo 2 troviamo la sublime dichiarazione dell’umiltà del Signore Gesù, seguita dalla glorificazione. Questo è il punto in cui la lettera raggiunge il suo apice. Dopo un intermezzo in cui parla di Epafròdito e Timoteo, Paolo racconta il suo passato di persecutore, la sua esperienza nella vita cristiana e invita i Filippesi a stare in guardia verso quelli che insidiano il loro cammino.

L'apostolo conclude con un appello all’unità della Chiesa e dei consigli su come sentire, pensare e agire. Ringrazia i Filippesi per la rinnovata generosità e chiude con i saluti e una benedizione.

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Il nome Sofonia in ebraico significa: "Il Signore ha protetto, ha nascosto", nel senso di “custodito”. Contrariamente agli altri profeti, che di solito menzionano solo il padre, Sofonia fa risalire i suoi progenitori fino alla quarta generazione,informandocidi essere diretto discendente di un Ezechia che potrebbe essere stato il re di Giuda (ma non si hanno certezze su questo). Le circostanze in cui Sofonia fu chiamato a profetizzare erano al tempo stesso pericolose e incoraggianti. Durante il lungo regno di Manasse (il cattivo figlio del buon re Ezechia che regnò fra il 696 e il 642 a.C.), lo stato morale e religioso di Giuda si era tristemente deteriorato. Sebbene godesse di una certa indipendenza, il regno di Giuda era a tutti gli effetti un suddito dell’impero assiro. Manasse si era opposto al risveglio religioso che aveva caratterizzato il regno di suo padre. Aveva riedificato gli altari che Ezechia aveva abbattuto e restaurato il culto legato al dio Baal, così superstizione, adorazione degli astri e sacrifici umani erano entrati a fare parte della vita religiosa. Ci fu però una svolta nella vita di Manasse: prima di morire, infatti, egli si pentì di questo suo atteggiamento e «si umiliò profondamente davanti al Dio dei suoi padri» (2 Cronache 33:12-19). Il figlio Amon gli succedette al trono. Nel suo breve regno, durato appena due anni, non mostrò nessun desiderio di respingere l’idolatria che si era radicata durante il regno di suo padre, ed infine, i suoi servitori organizzarono una congiura, assassinandolo nel palazzo reale (2 Re 21:19-24). È evidente che le cattive attitudini di questi due regni non avevano ottenuto il sostegno di tutto il popolo. Ancora una volta una minoranza non si era piegata alla malvagità dei propri re, sperava in tempi migliori e lavorava in vista di essi. Quando Giosia, figlio di Amon, ascese al trono nel 640 a.C., c’erano alcuni che non si erano dati all'idolatria, così Sofonia e il re Giosia riuscirono a guidare il popolo verso una riforma religiosa. Per l’atmosfera che si respira nel libro, si può pensare che Sofonia abbia profetizzato durante il primo periodo del regno di Giosia, quello cioè che precede la riforma. È possibile che Sofonia risiedesse a Gerusalemme, come si può dedurre dai precisi riferimenti a specifiche zone della città, riferimenti che potevano essere possibili soltanto da chi la conosceva bene (cfr. 1:4,10,11,12). Tra le vie della capitale, egli osserva gente che ricorre alla violenza ed alla frode, che pratica l’idolatria e mostra scetticismo nei confronti di Dio. Dunque un tempo di degrado religioso, morale e sociale. Sofonia viene chiamato da Dio ad avvertire il popolo riguardo al giudizio che si sarebbe abbattuto su di loro e ad incoraggiare quella minoranza che, pur subendo oppressione e maltrattamenti, non aveva rinnegato il Signore, e lo fa usando un linguaggio incisivo, toccante, caratterizzato da immagini vivaci.

Nel testo si possono distinguere tre temi principali. Al capitolo 1 è preannunciato il giudizio, che sarà terribile e universale; al capitolo 2 il ravvedimento è indicato come sola via di salvezza; al capitolo 3 troviamo una nota di speranza: al giudizio seguirà la benedizione. La sezione del capitolo 3 dai versetti 9 al 20 è diversa da ciò che precede. È come la calma dopo la tempesta; Sofonia prevede i giudizi che cadranno sul regno di Giuda e annuncia che avranno un effetto benefico: il popolo di Dio diventerà oggetto di lode fra le nazioni (versetti 19-20), le quali invocheranno il Signore (3:9).

Sofonia, insieme agli altri profeti dell’Antico Testamento, ci trasmette l'eterno messaggio di Dio, cioè la notizia che Dio vuole salvare il suo popolo e tutti coloro che lo invocheranno. Il Vangelo getta maggiore luce su questo messaggio e scopriamo che la salvezza a noi offerta è costata tanto a Dio. Nel Vangelo di Giovanni, leggiamo che Dio ha tanto amato il mondo che ha dato il suo unico Figlio. Un prezzo così alto deve farci riflettere su quanto Dio sia interessato alla nostra salvezza. Per usare le parole di Sofonia, possiamo dire che Egli ci mette tutta la sua potenza. Sentiamo la toccante descrizione che ci offre il nostro profeta: «Il SIGNORE, il tuo Dio, è in mezzo a te come un potente che salva», e poi aggiunge: «egli si rallegrerà con gran gioia per causa tua;si acquieterà nel suo amore, esulterà, per causa tua, con grida di gioia» (Sofonia 3:17).

È straordinario come Sofonia riesca a cogliere i profondi sentimenti di Dio nei confronti di coloro che vuole salvare. È vero, c’è sofferenza nel donare il Figlio, ma il Signore guarda ai risultati e gioisce. Nonostante i nostri peccati siano innumerevoli e ci rendano indegni, Dio desidera salvarci. Sofonia dichiara: «Il SIGNORE ha revocato le sue condanne contro di te» (3:15) e il Vangelo ci ricorda che la condanna è stata annullata perché Gesù Cristo ha preso il nostro posto.

Forse senti Dio troppo lontano, ma Sofonia dice: «Il SIGNORE, il tuo Dio, è in mezzo a te», cioè, egli è tra coloro che si rivolgono a lui per ricevere la salvezza.

Sofonia ci coinvolge nel suo entusiasmo e ci fa conoscere l’interesse che Dio ha per noi. Dio si interessa delle nostre ferite, dei nostri problemi, delle nostre sofferenze : «…salverò la pecora che zoppica, raccoglierò quella che è stata cacciata via» (Sofonia 3:19).

Possiamo effettivamente chiederci perché Dio ci ami tanto, visto che in tutta la Bibbia è evidente la nostra indegnità. Noi lo disonoriamo continuamente, spesso siamo indifferenti al suo messaggio, dubitiamo della sua esistenza, altre volte imprechiamo contro di Lui, urlando tutta la nostra rabbia...

Ma Sofonia ci mostra un Dio potente che gioisce nel salvare i peccatori!

Il Vangelo non è altro che questa Buona Notizia, preannunciata dai profeti e adempiutasi nella persona di Gesù Cristo. Egli ha aperto una strada per poter arrivare alla presenza di Dio e godere della sua gioia.Dio non era obbligato ad agire così nei nostri confronti. Tuttavia, egli ha visto la nostra necessità, ci ha provveduto la salvezza attraverso Cristo, mostrando in tal modo la grandezza della sua bontà. Il Signore offre la sua grazia: chi la rifiuta ne è escluso, ma chi la riceve può gioire nella gioia di Dio.

Al centro del messaggio del Vangelo c’è la grazia di Dio, cioè il fatto che Egli ci viene incontro con il suo favore. Nessuno può dire che è un messaggio che non lo riguarda», perché la Buona Notizia è rivolta a tutti. Tutti hanno bisogno di salvezza.

 

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